12 febbraio 2025

A Complete Unknown: una scatola vuota dalle opportunità perse


A Complete Unknown, un film attesissimo e carico di aspettative. Il biopic diretto dal regista James Mangold, si propone di mostrare al pubblico gli anni decisivi della formazione artistica e musicale di uno dei più grandi artisti del XX secolo, Bob Dylan.
A correre nelle sale dei cinema di tutto il mondo non sono stati soltanto gli appassionati di musica e i fan del cantautore americano, ma anche giovani di qualsiasi età, attirati dalla presenza sul set di uno degli attori più acclamati ed apprezzati del momento, soprattuto dalle nuove generazioni, Timothée Chalamet, chiamato ad interpretare proprio Bob Dylan.
Ci si trova dunque davanti ad un film dall’enorme potenziale, ma sarà riuscito ad avvicinare i giovani di oggi ad un’icona del passato ma più attuale che mai?

Da una parte quello che è stato l’idolo di un’intera generazione, dall’altra la celebrità più in voga del momento: uniteli all’interno dello stesso film e ne verrà fuori una scatola, una bellissima scatola, ma completamente vuota.
È questo quello che si rivela essere A Complete Unknown, l’attesissimo biopic sulla vita del celebre Bob Dylan, con attore protagonista Timothée Chalamet, uscito il 23 gennaio nelle sale dei cinema italiani.
Le aspettative erano tante, le possibilità per realizzare un film in grado di raccontare l’incredibile e sfuggente figura di Bob Dylan ad un pubblico vasto, e non ai soliti appassionati, erano innumerevoli, grazie ad un enorme produzione e ad un cast stellare.
Quello che però è uscito fuori dalle telecamere del regista James Mangold, è un film volto a raccontare i pochi, ma importantissimi, anni della formazione di Dylan come artista, da un punto di vista puramente estetico piuttosto che indagare la complessità storica ed umana del cantautore forse più celebre della storia della musica.
Se ci sono infatti dei motivi per cui andare comunque a vedere questo film, uno di essi è proprio il suo lato estetico: le inquadrature, i bellissimi costumi e gli strumenti utilizzati per replicare le scene dei concerti e delle sessioni di registrazione (ad un appassionato non sfuggirà una bellissima chitarra Martin 0042!), sono stati studiati con cura e con la minima attenzione al dettaglio.
L’altra grande motivazione per pagare il biglietto di ingresso alla sala è quello di non perdersi una strabiliante interpretazione da parte di Timothée Chalamet, il quale è riuscito perfettamente a replicare quella così particolare voce nasale di Dylan, non solo nelle battute del film, ma anche nel cantato, non si può infatti non rimanere sorpresi nel sapere che le scene di musica sono state cantate e suonate dallo stesso attore protagonista.
Ci si trova dunque davanti ad una bellissima bomboniera, adornata alla perfezione in ogni suo minimo dettaglio, ma se la si apre non riesce a stupirci e a meravigliarci quanto prometteva di fare.


Gli anni narrati nel film sono quelli che vanno dagli esordi del menestrello americano fino al 1965, anno decisivo della carriera dell’artista, in cui egli salì sul palco del Newport Folk festival imbracciando una chitarra elettrica fender stratocaster, sancendo una netta rottura con il suo vecchio e tradizionalista pubblico folk, che si aspettava di vederlo con la sua solita chitarra acustica.
Questi sono gli anni in cui Dylan incontrerà alcuni dei grandi protagonisti della sua vita e delle sue canzoni, fondamentali per la sua crescita come artista. Se il rapporto con Woody Guthrie è forse l’unico a salvarsi commuovendo in parte lo spettatore, risulta invece poco approfondito, nonostante sia centrale anche nello stesso film, la travagliata storia d’amore fra Bob e Joan Baez, che pare essere la semplice storiella di un tradimento di un artista terribilmente romantico e passionale, ma profondamente immaturo ed in cui neanche minimamente si tenta di approfondire il personaggio della Baez, una donna dall’animo ribelle, una cantautrice dalle origini messicane in grado di affermarsi davanti al grande pubblico americano, cantando per loro e contro di loro, contro le loro mode, il loro conformismo e le loro guerre in giro per il mondo.
Non si parla dunque di quella che è stata invece la vera connessione tra questi due grandi artisti, ovvero un rapporto intenso, emotivo ed intellettuale fra due protagonisti di una stagione rivoluzionaria.

Una stagione rivoluzionaria, appunto. I tempi in cui nasce e cresce Bob Dylan sono gli anni di un irrequieto fermento culturale, di un sentimento che accompagna ed infiamma i giovani protagonisti degli anni 60, che da li a breve si prepareranno a mettere a ferro e fuco le università e le scuole d’America e d’ Europa, spesso ispirati proprio dalle canzoni del giovane Dylan.
Sono gli anni in cui decine di giovani americani muoiono e uccidono nella guerra in Vietnam, in cui Martin Luther King marcia su Washington assieme a 200.000 manifestanti, in cui Malcom X viene ucciso con sette colpi di pistola ad Harlem, in cui i leader del movimento studentesco statunitense pubblicano il loro Manifesto Politico ed Esistenziale, in cui la liberalizzazione culturale si respira nei limiti del possibile anche nella repressiva Unione Sovietica con l’autorizzazione alla pubblicazione del libro dello scrittore Aleksandr Solzenicyn Una Giornata di Ivan Denisovič, in cui la Beat Generation rompe gli schemi del conformismo occidentale aprendo le porte per l’apice di questa incredibile stagione, ovvero il festival di Woodstock del 1971 (di cui Joan Baez sarà una protagonista).
Questa area di cambiamento che accompagna tutta la carriera di Dylan, non si respira mai all’interno del film, se non tramite qualche piccolissimo accenno, il quale poteva essere invece l’occasione ideale per spiegarci perché il cantante americano compare assieme alla sua canzone A Hard Rain’s a-Gonna Fall nei capitoli sulla guerra fredda dei manuali di storia contemporanea.
Il film ci mostra un Bob Dylan come un figura tormentata, schiva e sfuggente, spesso scontrosa e antipatica, nell’idea del perfetto artista romantico, ma non ci dice perché egli fu un uomo e un pensatore fuori dagli schemi, sicuramente una figura irrequieta e complessa, ma anche un lucido pensatore in grado di analizzare e capire perfettamente i tempi in cambiamento di quella stagione fra glia anni 60 e 70.


Bob Dylan è un uomo impossibile da etichettare, una maschera enigmatica e sfuggente, in perenne contraddizione con la propria immagine, e rappresentarlo in un film non è di certo semplice, ma se si ha la possibilità di farlo interpretare all’attore più apprezzato ed amato del momento e dunque di avvicinarsi così tanto alle nuove generazioni, che di Dylan forse non conoscevano neanche il nome, allora non si può non tentare anche solo di provare a raccontare l’importanza che questo artista ha avuto non solo nella storia della musica, ma nella storia con la s maiuscola, in quanto rappresentate di una generazione e di un decennio che, con i tempi che stiamo vivendo, risulta più attuale che mai.
A Complete Unknown aveva la possibilità di portare le giovani generazioni a scoprire uno degli artisti più importanti di tutto il XX secolo, ma purtroppo non è stato in grado di farlo.

Simone Savasta

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