Quando usiamo il termine arte, ci riferiamo a quella che un tempo era ritenuta la più elevata attività umana perché connetteva a principi superiori. Ora, abbandonata la concezione; formale, storica, estetico-filosofica, politica, psicologica e sociologica, secondo la quale si è cercato di interpretarla negli ultimi secoli, sembra valere solo il merchandising che l’ha ridotta a un’entità commercializzabile nei termini della speculazione finanziaria.
Avendo presente questo, con cinismo o per demotivazione, dobbiamo chiederci se nella nostra epoca, ha ancora valore e significato parlare d’arte. Considerando le proposte concettuali che l’hanno caratterizzata nell’ultimo secolo, essa è tutta e il contrario di tutto; una situazione, che come vedremo, dissolve ogni motivazione mentre la priva di significato.
È una crisi d’identità iniziata tempo fa, come indicano i vari generi di approccio nel darle un significato che abbiamo citato. Quello sul quale intendiamo soffermarci in questo articolo è il sociologico, in altre parole il rapporto fra l’arte e la società di cui è prodotto ed espressione.
Il più importante critico e storico d'arte della metà del secolo scorso, che si è occupato in modo sistematico di tale relazione, è stato Harnold Hauser con la sua Storia sociale dell’arte apparsa al principio degli anni Cinquanta del Novecento.
Che ci sia un legame fra arte e società è innegabile, e non potrebbe essere diversamente. La visione di Hauser va però inserita nel contesto politico al quale il critico riconduce i suoi teoremi. Egli coniuga il pensiero razionalista e progressista, sviluppato dalla borghesia ottocentesca, con il concetto del conflitto di classe elaborato e propugnato, non tanto dai lavoratori, ma dagli intellettuali borghesi che si occupavano di tale situazione. Come emerge dagli scritti di Hauser, è sempre la classe sociale con più potere e cultura che influenza e domina in vario modo quelle che controlla.
Il concetto di lotta di classe si caratterizza e trova forza nella contrapposizione insanabile fra la borghesia impegnata ad appropriarsi del plus valore di quanto prodotto per mezzo del dispotismo, e il proletariato.
Proprio Hauser, riguardo a questa oppressione, mostra un certo disagio quando scrive in relazione all’Antico oriente e al Medioevo:
Ma come commentare il fatto che il peggior dispotismo e la più insofferente dittatura spirituale non soltanto non impedirono la formazione delle più grandiose opere d’arte, ma crearono addirittura condizioni nelle quali l’artista non sembra soffrirne affatto…
(ARNOLD HAUSER, Le teorie dell’arte, Piccola biblioteca Einaudi, Torino, 1969-1989, p. 20).
“L’imbarazzo” hauseriano riguarda anche il paradigma, squisitamente moderno, della libertà di espressione; un concetto individualista privo di importanza nell’arte occidentale fino a circa il XIV secolo. Se l’arte ha raggiunto vette elevate proprio in società e culture autoritarie, oscurantiste e antiprogressiste, questo priva di valore le avanguardie fautrici della libertà espressiva quale motore dell’innovazione artistica negli ultimi due secoli.
Caccia al leone di Assurbanipal da Wikipedia. |
Prima di allora si lavorava per uno scopo superiore, non nel senso di servire il despota di turno, ma di perfezionamento interiore. Si riteneva che l’artista fosse il mezzo o il tramite attraverso il quale si manifestavano “idee” superiori in senso platonico dando forma agli archetipi e ai simboli che sfuggivano alla comune materialità.
L’impostazione materialista impedisce a Hauser di rendere comprensibile il milieu e la temperie concettuale e spirituale, ad esempio delle icone bizantine, il simbolismo geometrico dell’arte aniconica (arabeschi) islamici o l’esteriormente erotico di quella indù. Li vede quali armi di politiche portatrici di una visione distorta, piegata agli interessi di una classe sociale e il prodotto di quella superstizione ideologica che sarebbe lo spirito. Un quid, non pesabile e misurabile, il cui significato è ormai vago come quello di arte. Questo dimenticando o escludendo che l’uomo combatte costantemente contro la propria parzialità nei confronti dell’incommensurabilità del cosmo e del senso dell’esistenza. Il razionalismo lo azzera chiudendosi nell’equivalente concettuale dell’allegorica “caverna” di Platone, come se ne fosse spaventato.
La concezione razionalista-materialista, espressione dello sviluppo industriale ottocentesco pervaso della visione di un progresso senza limiti, riduce l’arte a un sistema in cui un’opera è il prodotto dell’interazione fra artista, critica, mercato e pubblico. La funzione del circuito artistico sarebbe quella, attraverso le novità, di richiamare un pubblico borghese. Benestanti pronti ad accettare i vari nuovi linguaggi proposti che offrirebbero un apparente nuovo modo di vedere il mondo e la società senza, in realtà, portare veri cambiamenti. Accade perché la società globalizzata e omogeneizzata non ha più una reale identità e valori costruttivi in cui riconoscersi che non siano legati alla materialità del guadagno.
Da tempo il vuoto risultante è giustificato dichiarando che l’idea e il conseguente significato di un’opera appartengono a chi la guarda. Sarebbe un osservatore isolato nel proprio solipsismo autoreferenziale sostenuto dalle conoscenze personali e dalle emozioni del momento. Le intenzioni dell’autore diverrebbero ininfluenti essendo spezzato il rapporto fra l’artista, l’opera e il relativo fruitore. Essa, a questo punto è trasformata in uno dei sofisticati prodotti di debito commercializzati dal sistema finanziario.
Dobbiamo tenere conto che l’arte è la “cartina di tornasole” o rivelatore del grado di funzionalità della cultura che la produce a propria immagine e somiglianza. Ogni società ha il proprio specifico stile, simile a un “abito” attraverso il quale si rende palese ai propri componenti offrendo concetti e immagini in cui riconoscersi. Questo avviene anche se a promuoverli è solo una parte della collettività, quella che culturalmente e politicamente è dominante.
Per comprendere una società e i suoi sviluppi, in particolare quelli che si avranno in futuro, è importante prestare attenzione all’interpretazione dei significati che essa, al proprio interno, attribuisce alle dinamiche riguardanti gli aspetti dell’esistenza. Se le opere d’arte sono state ridotte a mero strumento finanziario, è il risultato dei profondi mutamenti che si sono prodotti all’interno della cultura occidentale dalla fine del medioevo e in particolare dal Rinascimento, quando la classe borghese si è imposta sulle altre.
Fatte queste doverose precisazioni, se l’arte è la lente attraverso cui diventano evidenti le dinamiche di una società, l’attuale, che marginalizza tutto ciò che non produce immediatamente profitto, sembra giunta a un punto nodale della propria esistenza.
Non sarà creando “ecosistemi artistici alternativi” al grande mercato, o “nuove narrazioni” che fuggono la logica del profitto. Queste sono espressioni, fra molte altre che vengono dalla critica positivista ma che non offrono nuovi concetti o una filosofia utili per un rinnovamento. Il fronte del merchandising invece parla di incentivi economici per sostenere il mercato e gli acquisti delle opere, come se si trattasse di un’azienda in crisi. Significati e contenuti, sono l’anima e il motivo di esistenza di un’opera d’arte, ma ormai sono divenuti irrilevanti.
Quanto all’indispensabile citazione dell’ecologia, il suo potere riformatore non va oltre la preoccupazione esistenziale, in altre parole il timore per la sorte dell’umanità a causa dello sfruttamento indiscriminato della natura. È l’usuale approccio derivato dal razionalismo ottocentesco che a suo tempo, nella hybris della rivoluzione industriale, ha disprezzato la cosmologia metafisica della natura che indicava qual era la posizione e funzione dell’umanità in essa.
A conclusione di queste considerazioni possiamo chiederci qual è lo stato attuale di “salute” della società globalizzata. È una domanda la cui risposta richiede di guardare oltre le apparenze delle meravigliose e continue realizzazioni della tecnica e del sistema finanziario epigoni di una visione orizzontale della vita.
Giovanni Golfetto
Nessun commento:
Posta un commento