Ci sono storie destinate a perdersi nei vicoli bui della memoria e del tempo… Ed altre… che incedono sicure, con sfrontatezza lungo i confini della bellezza, non inciampano, non indugiano, ti entrano nell’anima e irretiscono il cuore, mentre brividi di emozioni scorrono nelle vene, mentre fuori il mondo corre e non aspetta più nessuno… specialmente le emozioni. L’ho ripreso in mano per l’ennesima volta, non tanto per leggerne la trama, ma per mortificare, per l’ennesima volta, la mia scrittura, che mi appare rozza, troppo artefatta, un po’ “di maniera”, al confronto con la scaltrezza linguistica e l’energica sintassi di uno dei miei scrittori preferiti: lui è Franz Kafka e la sua storia è una storia di celeberrimo cambiamento, a tratti ripugnante, poco attraente per occhi poco sensibili, Metamorfosi.
6 marzo 2025
I curiosi casi di Gregor e Benjamin
Mi piace il suono di questa parola: l’etimo greco sa di preziosismo, l’intreccio di consonanti dure e dolci crea una commistione contraddittoria, come la sua natura dualistica.
Gregor Samsa si risveglia nel corpo di un enorme insetto. È un incipit geniale: niente perifrasi, niente orpelli, niente ingentilimenti. È una creatura sgradevole. Ed io comincio ad immaginare. Fuori piove. La camera, una banalissima camera da letto, è diventata più piccola e lui cerca di alzarsi, ma ricade continuamente sul dorso, mentre le zampe continuano incessantemente a vorticare in quello spazio umano, divenuto improvvisamente inadeguato. Fuori piove. E lui pensa al suo status di commesso viaggiatore. La sua nuova forma non è il primo dei suoi pensieri, è paradossale, ma pensa al suo lavoro: è un impiegato sempre puntuale, uno di quelli che pensano sempre alla ditta e potrebbe fare tardi, considerato l’inconveniente. Incredibile… Kafka mi prende per mano, in questa discesa agli inferi, dove l’immaginazione irrompe con prepotenza e sento, per tutta la narrazione, che trepida, sotto le descrizioni minuziose, un crescente disgusto. Piove, a gocce grandi. Sono le sette e il treno è partito. La nebbia avvolge un paesaggio che non ci è reso possibile conoscere, perché il tempo del racconto è tutto concentrato nello spazio di una casa, di una stanza, che crea un senso di oppressione, proprio qui, in mezzo al petto. E proprio mentre sono intenta ad immaginare quel gigantesco, immondo insetto, che tenta di scendere dal letto, fin quando non cade provocando un tonfo inumano, nuove percezioni sensoriali si impossessano della mia mente. In un incessante alternarsi di creazioni visive ed uditive, si erge, stridente ed imprevista, la voce di Gregor che era la voce di un animale, sussurra acutamente impaurito il procuratore, che è andato ad accertarsi del motivo per cui il giovane e diligente lavoratore non sia al suo posto di lavoro. Kafka stupisce. È solo l’inizio. La sua scrittura insiste, con la sicurezza di un funambolo, lungo il filo di una climax, prima solo accennata, pronta a sviscerare, in un crescendo ansioso, sentimenti e sensazioni che mi lasciano atterrita. Provo a riflettere… Gregor ha acquistato consapevolezza della sua metamorfosi? No, da solo non ci riesce. Sento la chiave della stanza che gira, con eccessiva lentezza; lo scrittore enfatizza, mentre la spannung si avvicina. Esce ed il suo corpo, illuminato da un cielo d’improvviso più chiaro, compare a metà davanti ai volti dei presenti. Sorpresa, paura orrore, disgusto, disgusto, disgusto: la climax è perfetta. Fa male. Fa male sentire i pensieri di Gregor, che ormai ha esigenze di insetto (si nutre come loro), ma sentimenti umani. Il viaggio tra le stanze della casa è un labirinto senza colori: il distacco tra il mondo di Gregor e quello della sua famiglia è tragicamente segnato da un giro di chiavi: un padre, una madre e una sorella discorrono preoccupati di problemi finanziari, ora che l’impiegato modello di casa non contribuisce più all’economia domestica. Un fitto strato di polvere e di sporco si insinua tra l’esistenza cambiata di Gregor e quella immodificabile della sua famiglia. L’insetto mangia verdura marcia, eppure prova sentimenti umani e quella mela che lo ferisce sulla schiena quando, troppo ardito, compare nella sala, è come una maledizione paterna, in una dimensione dove né padri, né figli si sono macchiati di colpe, ma solo un fato beffardo, la cui logica mi sfugge, ride maligno sulle sorti del protagonista. Eppure, c’è una creatura che parla con l’insetto nel racconto. È una vedova, una vecchia signora dai contorni marginali, che si cura di lui, senza affetto e senza disgusto, lungo una cortina neutra che aggiunge vigore alla complessità delle sensazioni percepite. Una mela per delineare una lacerazione, morale più che fisica; uno spesso strato di polvere per definire una distanza, affettiva più che materiale; un sibilo incomprensibile per disegnare una metamorfosi inspiegabile. Gregor si lascia morire di fame ed è un sollievo per tutti. Il finale arriva improvviso, la trama si scioglie nell’unico epilogo possibile: Gregor non avrebbe potuto sopravvivere e la fine penna di Kafka lo sapeva già dall’inizio. Mi chiedo, mentre abbasso gli occhi un poco commossi sulle ultime righe, chi sia veramente cambiato nel corso del racconto; chi sia rimasto umano e chi abbia perso la sua umanità, in un tempo, il 1916 – anno della stesura – in cui l’umanità si era venduta al miglior offerente, qualche demone oscuro vestito di medaglie e panno pesante. La faccenda si complica e, come sempre, aggiungo dubbi e domande alle mie poche, labili certezze, che vacillano sotto i colpi della crescente solitudine di Gregor, che non smette nemmeno un istante di provare affetto per la sua famiglia. Si lascia morire: è una scelta d’amore. Nessun disgusto. Solo la bellezza di un sentimento puro.
Caso singolare quello di Gregor.
Come quello di Benjamin Button.
Ancora metamorfosi. Questa volta più lenta, più scandita, le stagioni sono quelle della vita, ma al contrario: lui, Benjamin, è nato vecchio. Il curioso caso di Benjamin Button è un racconto di Francis Scott Fitzgerald del 1922. So che adesso starete pensando ai due bellissimi Brad Pitt e Kate Blanchett e a quel bellissimo film che, qualche anno fa (nel 2008… possibile siano già passati tutti questi anni?) ha emozionato le sale cinematografiche con l’avvincente regia di David Fincher. Bene, io non mi sto riferendo al film, ma al molto meno noto e meno letto racconto breve da cui la pellicola trae ispirazione. Dicevo… Benjamin è nato vecchio. È il 1860 e, mentre Gregor si sveglia, per cause ignote, trasformato in un enorme insetto, Benjamin è nato con l’aspetto di un vecchio. Il padre Button e il padre Samsa sono del tutto simili: vogliono nascondere al mondo quelli che considerano non figli, ma abomini. Scendo, di nuovo, nelle viscere del mostro, più brutto, meno brutto; la smorfia di disgusto si attenua, decisamente. Dove mi conduce questa volta la penna di Francis Scott Fitzgerald? Sono nel mondo alla rovescia e ci sto bene. Come quella di Gregor, la vita di Ben è una vita atipica, immaginifica questa; orrorifica quella. La narrazione dello scrittore del Middle West scorre rapida nella sua semplicità. È meno ricercata di quella kafkiana, il lessico è pulito e basico; la descrizione cede volentieri il passo alla narrazione, che scivola con convinzione ad ogni repentino movimento di pagina. Non c’è nulla dell’elegante minimalismo del letterato praghese tra le righe del Benjamin Button; forse, solo l’ansia di raccontare una storia originale, singolare, ispirata da Mark Twain, il quale aveva osservato che era un peccato che la parte migliore della nostra vita venisse all'inizio e la peggiore alla fine. Esperimento sociale riuscito, a mio avviso, con discreti risultati. Più entusiasmante il film, a dirla tutta. E tuttavia, la metamorfosi dipana il suo fascino su questa insolita esistenza, che si snoda, con un ordito di umiliazione e rinnovato vigore, lungo il continuo incespicare del protagonista nella nuova, acquisita realtà del suo indomabile corpo. I toni si sono acquietati rispetto al dramma incalzante di Gregor, sebbene serpeggi di continuo lo stesso senso di inadeguatezza, che deriva dal suo sentire. Il “sentire” è una curiosa attività della mente e del corpo, che disattende con impertinenza lo scontato meccanismo della progressione temporale. Che emozione sentire, anche per te che stai leggendo, un corpo reticente che resiste ad una mente inceppata: è un ingranaggio banale – quello dell’evolversi cronologico degli anni che passano – che l’autore ha rotto con un eloquio stilistico essenziale e per nulla meraviglioso, banale, oserei dire. Eppure, l’effetto è dirompente, perché si scivola sulla china del paradosso e non se ne esce mai completamente. Il vigore di Benjamin cresce in una climax narrativa che attraversa le stagioni della sua esistenza, rompendo continuamente gli equilibri ordinari dell’amore, degli studi, del lavoro e tutto è capovolto. E sul finire del racconto un po’ di nostalgia la avvertiamo… Sarebbe bello vivere la giovinezza alla fine… Mark Twain aveva proprio ragione… Mi alzo dalla sedia e penso che, in effetti, gli anni mi scivolano tra le mani, ma sorrido pensando alla bellezza della scrittura e a quanto i libri e la penna mantengano la mia mente giovane… Dopotutto, c’è un po’ di Benjamin Button in ciascuno di noi. Basta cercarlo. Basta volerlo.
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4 commenti:
👏
🩷
Grazie mille, Tommy!
Grazie mille, Christian!
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