Il male, nel Terzo Reich, aveva perduto la proprietà che permette ai più di riconoscerlo per quello che è la proprietà della tentazione. Molti tedeschi e molti nazisti, probabilmente la stragrande maggioranza, dovettero esser tentati di non uccidere, non rubare, non mandare a morire i loro vicini di casa […]; e dovettero esser tentati di non trarre vantaggi da questi crimini e divenirne complici. Ma Dio sa quanto bene avessero imparato a resistere a queste tentazioni.
Lei è Hannah Arendt e il libro, celeberrimo e indiscutibilmente pregnante, è La banalità del male. Nel 1961, a Gerusalemme, davanti al Tribunale distrettuale, dopo essere stato catturato l’anno prima a Buenos Aires, Adolf Eichmann, “burocrate ligio e zelante”, organizzatore della cosiddetta “soluzione finale” della questione ebraica, viene sottoposto a processo. Deve rispondere di quindici imputazioni, relative a crimini commessi sotto il regime nazista e lui, difeso dall’avvocato di Colonia Robert Servatius, si dichiara “non colpevole nel senso dell’atto d’accusa”.